martedì 30 aprile 2013

French fries, chips, pommes frites: insomma patatine !

Quando i conquistadores  scoprirono la patata in Perù e la introdussero in Europa, il tubero non sembrò entusiasmare il popolo, né tanto meno i cuochi delle corti del '500.
Il fatto che fosse una radice, cresciuta sotto terra, senza alcun "fiore" che spuntasse dal terreno la avvicinava  più ad un cibo per animali (cavalli o asini) che non ad una pietanza da tavola: d'altronde gli Spagnoli (i primi ad esaminarla) non sapevano neppure come cucinarla! Qualcuno propose di mangiarla cruda, molti pensarono di farne della farina, così come all'epoca si faceva con le castagne, ma il risultato fu del tutto inaccettabile.


Poi la fame, le carestie del '500 ebbero il sopravvento, ed allora i contadini furono costretti a piantarla nei loro orti, per placare la fame generale. Spesso però si consumava cruda, come  una verdura da insalata, e sebbene il suo sapore fosse inconsistente, l'apporto calorico era presente.
Solo nel '700 un agronomo italiano -  Giovanni Battarra - le consiglia per placare la fame dei contadini, limitandone perciò l'uso ed il consumo (lesse per  lo più) alla classe più bassa. Non era sicuramente un cibo da Re!


La relativa facilità con cui la patata poteva essere coltivata un po' ovunque in Europa ne segnò il destino: sempre  più spesso venne consigliata nei tempi di carestia, spesso accanto al mais - altra importante scoperta alimentare dalle Americhe, alla base della moderna polenta - pur mantenendo lo spirito di cibo povero!
Durante il 19° secolo l'Inghilterra fece dell'Irlanda la propria riserva di patate, così che il tubero divenne ben presto il simbolo stesso dell'alimentazione irlandese, ma  quando tra il 1845 ed il 1846 una grande carestia decimò la raccolta di patate, ben un terzo del popolo irlandese fu costretto a lasciare la patria, dando inizio alla celebre emigrazione verso gli Stati Uniti...
In Italia sarà Pellegrino Artusi a "nobilitarla" a partire dalla fine del 19° secolo, suggerendone varie modalità di utilizzo e cottura, tra cui rosolate, ridotte a purè e fritte.


In Europa altri tentativi di cottura erano stati intrapresi nel passato, ma ancora  prevaleva la moda di farne polenta, mentre i vari tentativi di ridurla a farina per farne il pane erano falliti.
Le patate erano invece ottime per la preparazione degli gnocchi, un piatto storico in  Italia, presente già nel medioevo, e precedentemente preparati colo con il pane.
La frittura è un tipo di cottura tipico dell'Europa, un metodo che vuole "nobilitare" il cibo con l'aggiunta di grassi saturi (lardo o olio), mentre nelle Americhe questa cottura era del tutto assente.
Ecco quindi che un prodotto tipico del nuovo mondo va ad incrociare la cottura tipica europea per eccellenza, in un ottimo esempio di sintesi culinaria!



La contesa circa l'invenzione delle patatine fritte è lunga e lungi dall'essere finita: i Francesi ne rivendicano la primogenitura, non  a caso in USA le patatine vengono chiamate French fries, ma i belgi di oppongono a questa tesi ed assicurano che l'idea originaria fu la loro, e sottolineano il fatto che le patatine perfette devono essere fritte ben 2 volte!
Curiosamente in Germania - che delle patate ha una cultura nazionale - la frittura arriva tardi, dopo che il tubero era stato già cotto, bollito, arrostito, trasformato in gnocchi ecc... A Berlino così come a Monaco infatti le patatine vengono chiamate Pommes Frites, un nome che ne avvalora l'origine d'oltralpe.


In Inghilterra si  chiamano chips, e vengono spesso associate al fish, creando un piatto che può a buon titolo essere definito un unicum britannico; patate e merluzzo fritti insieme, nello stesso burro, e spesso condite con l'aceto (non la maionese, né il  ketchup, che vengono visti come accostamenti barbari) e servite nei sacchetti di carta.



La mondializzazione dello stile Mac Donald's ha  poi contribuito a farne  una vivanda universale, forse appiattendone le differenze nazionali, cercando di uniformarne il gusto, ma sicuramente rendendo le patatine fritte il contorno più celebre al mondo.


lunedì 22 aprile 2013

Il vino dei conventi e quello delle taverne


La fine di Aprile e l'inizio di Maggio a Narni sono indissolubilmente legati alla Festa con la F maiuscola: i festeggiamenti in onore del Patrono San Giovenale, il corteo, la corsa in campo, i musici, gli spettacoli e le taverne.

E' l'occasione giusta, allora, per parlare un po' del vino, la bevanda principe del medioevo, insidiata dalla cervogia, ma solo nel nord  Italia, mentre il resto dello stivale resta fortemente ancorato al succo d'uva, che però si beveva  in un modo molto differente da ciò che ci immaginiamo.
Ecco allora qualche spunto di riflessione, e qualche curiosità al riguardo:



Durante i primi anni del Medioevo, nei territori un tempo occupati dai Romani, la produzione di vino diminuisce ed allora  lo sviluppo della viticoltura si deve in gran parte ai conventi, che lentamente si trasformano in veri e propri centri vitivinicoli, ad opera di monaci che sin dall'inizio si dedicarono alla nobile arte del vino,  in quanto elemento indispensabile durante la messa e simbolo liturgico del sangue di Cristo. 

Questo contribuì notevolmente all'espansione della viticoltura anche in molte zone dove essa non era propriamente parte delle tradizioni locali, ma  la coltivazione della vite è solo uno dei tanti aspetti e dei tanti lavori portati avanti nei monasteri , anche se tra i più importanti e redditizi...



Il vino medievale era suddiviso in tre qualità:
La prima - il "vino" vero e proprio - era ottenuta con una blanda spremitura e produceva un succo naturale e corposo; questo era il prodotto migliore e solo i ricchi potevano permetterselo. 
La seconda spremitura, più vigorosa, offriva un succo di qualità inferiore, il "vinello" probabilmente bevuto dal clero. 
Infine la terza, che generava un quasi vino chiamato "acquerello", consumato dai poveri e ricavato aggiungendo acqua alla poltiglia delle vinacce. 
Per rinforzare gli aromi, il vino medievale era spesso "condito" ripetutamente - così come in passato - con erbe, spezie, miele e assenzio, mentre per essere conservato fino a tre o quattro anni veniva bollito, pena la perdita dei tre quarti della sua qualità.



Aldilà di queste "adulterazioni" bisogna ricordare che il vino nel medioevo raramente viene bevuto puro, forse perchè troppo forte, e quindi l'annacquamento della bevanda è comune, tanto frequente  che lo stesso verbo che oggi usiamo per descrivere l'atto di versare il vino mescere, deriva proprio dall'uso di mescolare vino ed acqua!
Durante i secoli  che caratterizzano il medioevo vino, e soprattutto il "buon" vino, è  sinonimo di ricchezza e prestigio, e l'eccellere nella produzione di qualità diventa per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita.  
I Benedettini, diffusi in tutta Europa, erano famosi per il loro vino e per il consumo - non proprio moderato - che ne facevano.



I "Carmina Burana" descrivono - ironicamente - la bontà del vino del convento, che però è riservato solo all'abate ed ai priori, mentre il popolino è costretto a bere il vinello.
Il potere della "vermiglia bevanda", diventa ben presto bersaglio satirico del popolo costretto alla sua astinenza. Con il consueto lazzo di spirito popolare, ecco una versione "alcolica" del Pater Noster, tradotta dal latino: 
"Padre Bacco che sei nei boccali,
sian santificate le tue vendemmie,
venga il tuo tempo di fermentazione,
facci ben bere del buon vino quotidiano,
offri a noi grandi bevute come noi le rioffriremo ad altri,
inducici con le tue tentazioni aromatiche,
e liberaci dall'acqua."

Dopo il Mille, accanto alla viticoltura ecclesiastica e signorile, si affianca quella della nascente borghesia mercantile che intravedeva nella produzione e nel commercio dei vini nuove strade per profitti sicuri e redditizi. Da genere destinato all'alimentazione e agli usi liturgici, il vino diviene un bene ricercato, moneta di scambio e fonte di ricchezza per produttori e commercianti.



Ecco una ricetta di una celebre bevanda a base di vino nel Medioevo:

Ippocrasso Vino medievale
Ingredienti:
1 litro di vino rosso (ma si può fare anche col bianco), miele liquido 200 g, cannella in stecca pestata 8 g, zenzero fresco sbucciato e tagliato a fettine 8 g (sarebbe meglio altrettanta galanga, che assomiglia allo zenzero ma è più delicata, però è difficile da trovare), pochi grani del paradiso pestati (anche loro sono difficili da trovare, se non li trovate, sostituiteli con cardamomo).
Versate il vino in una brocca. Mescolate in una ciotola tutte le spezie, aggiungetele al vino assieme al miele e miscelate. Lasciate riposare per almeno 12 ore, ma anche 2 giorni, più riposa meglio è. Filtrate e passate in frigorifero, va servito a 10° di temperatura.


domenica 14 aprile 2013

La tradizione delle birre primaverili: la Märzen Bier

La Märzen Bier (ovvero Birra di Marzo) ha una lunga tradizione in Germania, e la sua produzione è addirittura alla base dell'invenzione dell'Oktoberfest di Monaco (ne abbiamo già parlato nel blog, proprio con questo  post) ed è strettamente legata alla storia stessa dell'economia "rurale" tedesca.


 La Märzen è una birra della famiglia delle pale lager, le cui origini risalgono al XVII secolo, a bassa fermentazione, più forte di una lager comune, ed è prodotta mantenendo le temperature inferiori a 10 gradi durante il processo di birrificazione.
Il suo nome deriva dal mese di marzo (in tedesco: März) proprio perché prodotta alla fine della stagione birraria.
La celebre legge bavarese del 1539 – che è alla base della produzione della classica bionda tedesca - stabiliva infatti che la produzione di birra era consentita soltanto tra le festività di san Michele, il 29 settembre, e di san Giorgio, il 23 aprile.


Durante l’estate la produzione era vietata per il pericolo di incendi all'interno delle distillerie (che spesso si trovavano negli scantinati di case private, al centro delle città..) ed allora  con un sigillo ufficiale si chiudevano  le caldaie di miscela.



 In assenza di refrigerazione artificiale, per evitare che la birra perdesse sapore e tenore alcolico, i mastri birrai bavaresi crearono questa birra più alcolica e ricca di luppolo, che può conservarsi per circa sei mesi, così da resistere ai mesi estivi ed essere consumata in settembre-ottobre.
Proprio per questo la Oktoberfestbier, la birra servita ogni anno all'Oktoberfest di Monaco, festa che si tiene a partire da metà settembre, è una Märzen Bier.



In Germania questa birra è abbastanza robusta, con un forte  sapore di malto, ed un colore che varia tra il marrone pallido e il marrone scuro.
In Nord America è invece  più forte, e decisamente più amara. In Austria invece il termine Märzen indica invece una birra che tende ad assomigliare alle helles quanto a colore, corpo e sapore: è la tipologia di birra austriaca più popolare.


Tra i vari nomi con cui è conosciuta ricordiamo: Märzenbier, Festbier, Oktoberfestbier e Wiener Märzen.

giovedì 4 aprile 2013

Cum Grano Salis

Oggi parliamo un po' del sale, non delle sue caratteristiche chimiche, né di quelle culinarie, bensì del suo peso all'interno della nostra cultura orale tradizionale.





Il Sale è un elemento molto importante nell'alimentazione ed è  carico di simbologie fin dai tempi più remoti. Era previsto nei riti sacrificali da Ebrei, Greci e Romani come simbolo d'incorruttibilità; veniva sparso sulle rovine delle città nemiche rase al suolo a simboleggiare la futura sterilità della zona; era considerato sicura protezione contro gli influssi maligni con particolare riguardo alle streghe.



Dal tempo dei Longobardi in poi, se offerto insieme al pane, era il segno dell'accettazione di un ospite straniero e della sua inviolabilità. Nel Battesimo verrà poi esorcizzato e posto in bocca al battezzando a simboleggiare la forza spirituale e l'incorruttibilità morale della sapienza, dopo che Cristo ebbe definito “sale della terra” i propri discepoli (Matteo,5,13) in quanto votati a dare “sapore” alla vita, e quindi a darle significato, mediante la diffusione della parola di Dio e salvando così il mondo dalla corruzione.

Nella tradizione popolare il sale a tavola non deve essere mai versato, perché la sua caduta accidentale porta sfortuna, in quanto considerato simbolo di ricchezza che così andrebbe sprecato; nel caso in cui questo incidente avvenga, bisogna subito gettarne un po' dietro la schiena per prevenire la venuta degli spiriti maligni!

In alcune culture orientali il sale serve anche a purificare la terra, prima di un evento: in Giappone i lottatori di Sumo lo gettano infatti sul tatami prima degli incontri:




Molti termini moderni derivano dall'uso del sale, dalla sua esistenza all'interno del sistema sociale diremmo: la parola Salario - ad esempio - è ancora fortemente legata all'uso di pagare i soldati dell'esercito Romano con grandi quantità di sale, un elemento essenziale per la conservazione della carne, di grande importanza nel mondo classico.
Il "peso economico" del sale è d'altronde ben presente anche nella sua aggettivazione: una merce molto costosa è salata, il prezzo è salato, ecc.... Ciò rafforza l'idea del sale come sinonimo di oggetto di gran pregio e valore!



La lingua italiana -grazie alla cultura alimentare del nostro paese, che sin dall'epoca classica ha basato molto della sua esistenza sull'uso del sale (basti pensare all'importanza di una strada consolare come la Salaria, che fu costruita proprio per lasciar passare i carichi di sale verso Roma..) riflette questa radice in molti modi di dire, eccone alcuni, tra i più comuni:

Avere il sale in zucca: essere intelligenti
Cum grano salis: capire qualcosa non soffermandosi sull'aspetto superficiale
Essere il sale della terra: essere molto colti, indispensabili
Essere senza sale (sciapo): essere scialbo, insulso
Mettere il sale sulla coda (catturare qualcuno arrivandogli molto vicino
Rimanere di sale: restare immobili, stupefatti (con riferimento alla moglie del biblico Lot)
Spargere sale sulle ferite: aggravare un dolore, una situazione spiacevole

Alcuni proverbi regionali poi ricorrono al sale per evidenziare la propria saggezza popolare  ad esempio in Toscana si dice: Prima di scegliersi un amico bisogna averci mangiato il sale sette anni: ed a Napoli: Omo senza vizi è menestra senza sale !

In conclusione, visto che la curiosità è il sale della vita, speriamo di aver sfamato qualche lettore !